Un castillo para las palomas

Scorcio del castello di Rivalba

«Fai le cose con calma e le indovinerai», aveva scritto a una suora don Clemente. Molte volte egli aveva fatto così, anzi sempre, meno quel giorno in cui decise di andare a Torino per comprare un castello. Era un pomeriggio di primavera del 1879. Era andato con il coadiutore a visitare una cascina del beneficio parrocchiale. Giunto in un punto da cui si vede il castello che domina tutto il paese, si rivolse al suo curato dicendogli: «Dal momento che l’attuale casa delle Figlie di San Giuseppe è troppo angusta e insufficiente, mi dica lei se quel castello non sarebbe l’ideale per esse».

«Direi che non le manca il buon gusto», si limitò a rispondere il curato.

«Ed allora, lo compriamo?».

«Lo compri pure», rispose l’altro, probabilmente senza dar peso alla cosa.

«Va bene. Domani stesso andrò a Torino e, se Dio vuole, vedrò come concludere l’affare». E il giorno dopo partì per Torino, dopo aver detto alle suore di pregare molto.

Oggi, le Figlie di San Giuseppe si prendono cura di tutto ciò che è attinente al culto eucaristico
Alla sera ritornò con in mano le chiavi del castello del conte Cesare Balbo di Vinadio. Alle suore subito da lui riunite in cappella, disse: «Il Signore ha fatto cose mirabili per il nostro povero Istituto. Adesso, dopo averlo ringraziato, bisognerà che esaminiamo quello che ci ha dato, rendendoci proprietari del castello, e quello che ci converrà fare per renderlo convenevole abitazione della preghiera e del lavoro. Noi lo collochiamo fin d’ora sotto la protezione della Madonna e in particolare del suo vergine sposo,Giuseppe…».

Il 29 agosto 1879 la piccola comunità fece la sua entrata in castello. Alcuni giorni dopo padre Felice Carpignano benedisse la Cappella e predicò gli esercizi spirituali alle religiose. Dirà un giorno il Fondatore: «Se sapessi che non fosse volontà di Dio che esistesse l’Istituto o che in esso non si facessero le cose con fede, darei tosto fuoco al castello». Quel giorno non arrivò. Il castello esiste ancora e lo godono anime che vivono di fede e di lavoro.

CAMBIO DI ROTTA

Un giorno del 1880 don Marchisio riunisce la comunità delle Figlie di San Giuseppe e dice loro: «Pare che il buon Dio voglia cambiarmi le carte in mano, proprio come fece con S. Francesco di Sales che aveva ideato una cosa e il Signore gliene fece fare un’altra. Pare, dico, che il buon Dio m’inviti a compiere un disegno ben diverso da quello che avevo concepito fin da principio. Nella Chiesa già vi sono e fioriscono molte istituzioni che hanno per motivo la carità spirituale e materiale verso il prossimo, ma istituzioni che siano consacrate unicamente al culto di Gesù Sacramentato, forse, ch’io sappia, non ve n’ha ancora alcuna;

Oggi le Figlie di San Giuseppe progettano ricami e li realizzano, lavano e stirano le suppellettili degli altari

ond’è che avrei divisato di cambiare scopo all’Istituto, il quale invece di servire Gesù nei poveri operai dei laboratori, s’adoprerà a servire nel miglior modo possibile Lui stesso in tutto ciò che spetta al Sacramento d’amore, non solo con un lavoro diligente e coscienzioso, ma con la massima riverenza e devozione».

Alle Suore non sfuggì la portata storica che quelle parole stavano avendo per la vita futura dell’Istituto, e quando don Marchisio finì di annunciare il nuovo compito che la Provvidenza gli aveva assegnato, furono ricolme di gioia. Ora si apriva dinanzi alle loro anime una nuova missione, inoltre si palesava un compito necessario nella Chiesa, perché in molti luoghi di culto i paramenti sacerdotali, i vasi sacri stessi non erano degni della divina liturgia, né sempre i confezionatori delle ostie e i provveditori del vino per la messa si attenevano alle prescrizioni riguardanti il Sacrificio divino.

Era quindi fuori dubbio che la Divina Provvidenza aveva voluto che don Clemente avesse visto tutto questo, così che diventasse fondatore di un Istituto la cui principale missione fosse quella che lui stesso aveva annunciato.

Il cambio di rotta gli era stato certamente ispirato. Nelle sue cose, Dio interviene per strade che l’uomo ignora.

Oggi le Figlie di San Giuseppe preparano ostie e vino, ricamano, lavano e stirano la suppellettile dell’altare prendendosi cura di tutto ciò che è attinente al culto eucaristico, perché il loro Fondatore si è visto “cambiare le carte in mano”. Quelle carte che erano sembrate sue, Dio gliele aveva sostituite.

Gioia di una novizia nigeriana che manifesta gratitudine al Signore per il dono della vocazione.

PER LE STRADE DEL MONDO

Non voleva affrettare le cose. Prima di moltiplicare le opere bisognava aumentare il numero di quelle suore che fossero capaci di mettersi in cammino per le strade del mondo. Era necessario rafforzare le loro ali, sensibilizzare il loro senso di orientamento perché non solo ricordassero la casa da dove erano partite, ma ancor più lo spirito che doveva accompagnarle verso nuove mete.

Postulanti brasiliane

Ma arrivò presto l’ora del primo volo, al quale le Figlie di San Giuseppe ne fecero seguire altri con ardimento e fiducia e poi altri ancora. Ed ecco nascono nuove case, come per incanto: 1881 Torino; 1883 Roma; 1884 Ivrea; 1885 Milano; 1888 Novara e Genova; 1891 Venezia; 1896 Bologna; 1897 Verona; 1900 Cuneo; 1902 Piacenza e Padova. Le vocazioni aumentano, altre suore ed altrettante aperture d’ali: Stefano Belbo, Lodi, Fidenza, Mileto, Trieste, Siracusa, Ragusa, Palermo,Melegnano, Chieti, Crema.

Nuovi virgulti crescono: novizie nigeriane nel giorno della prima Professione religiosa
Le ali ormai sono solide e non temono le vastità dell’Oceano. Le Figlie di San Giuseppe approdano in terra d’America nel 1938. È l’Argentina la prima che le accoglie: Buenos Aires.

Come non ricordare qui che la prima ragazza che le avvicinò e le aiutò a non smarrirsi in quella vastissima terra diventò “Suor Giuseppina”? Dopo Buenos Aires, venne Rosario, Mendoza, Cordoba, e poi S. Paolo, Londrina, Fortaleza in Brasile, e poi Merida-Yucatan in Messico e Onitsha Awada e Port-Harcourt in Nigeria.

Intanto altre fondazioni si hanno in Italia: Pescara, Sassi, Reggio Calabria, Napoli, Biella, Catania, Como, Mestre, Castione Veronese. Dovunque sono richieste le “Missionarie Eucaristiche”, come le chiamano in America.

DONDE TANTA VITALITÀ?

Don Marchisio incamminò sì le sue Figlie nelle opere esterne, ma seppe trasfondere in loro un carisma profondo.

Preparare la materia prima per il Sacrificio Eucaristico è uno dei compiti delle Figlie di San Giuseppe
Ciò che una suora fa può certamente essere fatto da qualsiasi altra donna, ma lo spirito che l’anima è frutto di una vocazione speciale ricevuta dall’alto ed alla quale viene risposto alla luce degli esempi e della dottrina del Fondatore. I suoi voti la dispongono a servire: servire Gesù Sacramentato, servire la Chiesa, servire i fratelli. La sua dedizione al lavoro, sostenuta da intensa preghiera, la dispone a impegnarsi nella preparazione delle ostie, del vino, della suppellettile per il sacramento eucaristico. Ogni punto dato ai paramenti, ogni ostia confezionata, ogni goccia di vino che esce spremuta dai torchi è palpito d’amore.

La Figlia di San Giuseppe s’incamminerà ormai sulle vie del mondo. Dovunque fiammeggerà una lampada accanto ad un Tabernacolo o si leverà un’Ostia, là sosterà col suo cuore e col fremito delle sue dita laboriose la suora Giuseppina.

E dal cielo don Clemente ripeterà a ciascuna: «Sii la serva di Gesù Sacramentato; servilo con fede e senza mai vacillare».

NON TUTTE FURONO ROSE…

La crescita dell’opera che aveva fondato causava a don Marchisio problemi d’ogni specie. Pur continuando ad essere parroco di Rivalba, doveva occuparsi di quanto concerneva l’Istituto. Né lo lasciavano in pace gli avversari di sempre. Irrisioni, mormorazioni, calunnie e minacce erano il suo pane quotidiano.

Impianto industriale attualmente in funzione per la sua fermentazione e conservazione
L’acquisto del castello irritò molti che vedevano così perduta una delle più caratteristiche mete della passeggiata domenicale, ma ancor più s’indisposero i paesani quando il parroco fece collocare sulla torre una statua di S. Giuseppe con le spalle volte al paese. A lui interessava quella posizione perché voleva che lo sguardo del Santo fosse rivolto verso il laboratorio delle suore. E così lo spiegò a una delegazione che gli si era presentata per rimproverargli che aveva agito per disprezzo al paese. Si giunse ad un accordo: essi avrebbero comperato una statua della Madonna da porre sul laboratorio che guardasse verso Rivalba. Sembrava che tutto fosse ritornato alla normalità, quando scoppiò la bufera.

Si cercava adesso di ferirlo nel più profondo del cuore, toccandolo nella sua istituzione con ogni sorta di calunnie. Lo si chiamò pazzo, fanatico e perfino criminale, perché conduceva alla miseria tante povere ragazze.

«Dicono che sono pazzo», commentava alle suore, «ma io spero che in cielo ci sia un posto anche per i matti. E voi pregate il Signore, perché mi conservi questa pazzia.

Se vogliono lapidarmi, lo facciano pure; ma mentre vivo, voglio prodigarmi per la mia parrocchia e per il mio Istituto».

Gruppetto “messicano” delle Figlie di San Giuseppe. Approdate per la prima volta in terra d’America nel lontano1938, si sono poi rapidamente diffuse in Argentina, Brasile e Messico

VOLEVA GUADAGNARSI IL CIELO

Di carattere forte, talvolta pareva scoppiare, ma la sua virtù gli impediva eccessi e la sua volontà dominava gl’impulsi dell’ira. La grazia operava continuamente in lui quella trasformazione che conduce alla santità. A una suora scriveva:

«Sta umile e mansueta con tutti anche con i nemici, credendoti sempre degna degli oltraggi che ti fanno e pensando che per i tuoi peccati meriti anche peggio».

Quante volte egli applicò a se stesso questo consiglio per superare ciò che soffriva nel suo cuore durante la vita.

«Far bene e ricevere male, dovrebbe essere l’esercizio di ogni cristiano e molto più la gloria, la gioia, la corona di ogni religiosa». «La nostra condizione in questa terra è quella di soffrire per meritarci il cielo».

Quadretto ricamato e dipinto a mano da suor Rosalia Sismonda.

E' conservato nella sala esposizione al castello di Rivalba
Don Clemente voleva guadagnarsi il cielo ed era convinto che il cammino per raggiungerlo era quello percorso da Cristo: il cammino della croce e del perdono. Seppe quindi accettare anche quello che gli piovve addosso dall’autorità ecclesiastica. A Mons. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, morto il 25 marzo 1883, successe il cardinal Gaetano Alimonda. Le male lingue arrivarono fino al Cardinale, per accusarlo come trafficante, negoziante di vino e sfruttatore di ragazze. Non sappiamo la reazione dell’Arcivescovo, ma ci consta che non volle ricevere in udienza l’accusato. In una lettera don Clemente lasciò scritto: «Io me ne sto tranquillissimo. Sono informato che si scrisse all’Arcivescovo chiaro e tondo per proibirmi di predicare e di celebrare la Messa.

Per le vie di Torino sono guardato da taluno di cattivo occhio; non posso più recarmi a celebrare nel Santuario della Consolata; in episcopio non posso presentarmi, perché non mi si dà più udienza… Il nostro divino Modello non soffrì anch’egli, per nostro amore, tale specie di affronto?…».

Quella spina gli fece sanguinare il cuore. Si consolava però dicendo: «Se il Signore ci visita con le tribolazioni, accettiamole volentieri; esse sono il segno che Dio è contento di noi».

“Mozzetta” indossata da don Clemente Marchisio.

E' conservato nella sala esposizione al castello di Rivalba.

IL TEMPO SI STAVA RACCORCIANDO…

Poco a poco i giorni cominciarono a pesare sulle spalle di don Marchisio. Nel 1875, a 42 anni, fondò l’Istituto delle Figlie di San Giuseppe. In piena virilità dette il meglio di sé senza risparmio. Al lavoro pastorale di sempre si aggiunsero i viaggi per aprire nuove case; aumentò la corrispondenza con superiore e suore.

La preghiera è l’alimento della vita cristiana.

Il Beato Clemente esortava sempre le sue figlie a offrire a Dio tutti i momenti della giornata.

«Offriamo a Dio tutti i momenti di quest’anno consacrandoli ad onore e gloria sua e ripetendo sovente lungo il giorno: Tutto per Voi mio Dio». Esortava così le suore al principio di ogni anno che considerava come un “nuovo regalo di Dio”. La fatica si faceva sentire anche per lui. Nemmeno i santi sono esenti dal logorio fisico e per quanta buona volontà abbiano, risentono delle conseguenze dell’età. Da tutte le città d’Italia dove aveva fondazioni arrivavano lettere per sollecitare aiuti economici, chiedere consigli, avere orientamenti spirituali… Don Marchisio non si risparmiava, ripetendo:

«Mentre Dio ci dà tempo, facciamo il bene».

«Tra pochi anni, tutti noi, io per primo, saremo o santi o tizzoni d’inferno».

S’accorgeva infatti che quel tempo gli si andava raccorciando. Ma aveva anche brevi tempi di pausa e di riposo spirituale. Ed allora riviveva nell’intimità di una gaudiosa comunione con il suo Dio la memoria dei doni con cui gli aveva fatto sentire la sua presenza benedicente e compiacente: ricordava la benedizione del nascente Istituto inviatagli nel maggio del 1876 dal suo Vicario in terra, Pio IX; rammentava l’esclamazione con cui Leone XIII lo aveva accolto insieme con un piccolo nucleo delle sue Figlie: «Oh, finalmente Dio ha pensato un po’ a sé stesso»; riviveva il gaudio con cui la Congregazione esultò quando il Santo Padre gli inviò nel 1901 il “Decretum Laudis”.

Come avrebbe poi potuto dimenticare i tanti amici e consiglieri che gli furono strettamente vicini: padre Felice Carpignano, S. Giovanni Bosco, S. Giuseppe Cafasso, S. Leonardo Murialdo e S. Pio X, durante il cui pontificato le Figlie di San Giuseppe ricevettero l’approvazione definitiva?

È proprio vero: il buon Dio avvia i suoi santi per cammini impervi, ma inonda le loro anime di sovrabbondante gaudio.

Anche don Marchisio avrebbe potuto proclamare con Paolo: «Sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni».