Parroco a Rivalba

Rivalba

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Chiesa di Rivalba, punto di partenza di ogni attività di don Marchisio

e porto sicuro di pace e serenità.
Il 18 novembre 1860: nella vita di don Marchisio si apre un terzo tempo. A 27 anni è nominato parroco di Rivalba, divenendo la guida di quella parrocchia rimasta vacante per la rinuncia del parroco anziano e ammalato.

La madre lo precedette una settimana prima. Voleva ordinare le cose del figlio e sistemarle nella canonica. L’ordine ricevuto dal suo Clemente era stato chiaro: né lusso né comodità. E la mamma gli fece trovare una stanza povera: un materasso di foglie di granoturco, lenzuola nuove e, come regalo personale, una coperta. Il tutto protetto da un copriletto a quadretti, simile a quello che si usava negli ospedali e nelle umili case. Quarantatré anni dopo don Marchisio morirà nello stesso letto, sullo stesso materasso, sotto la coperta di mamma, ormai rammendata in tante parti.

La gente di Rivalba attese il nuovo pastore che, nella presa di possesso, manifestò, commosso fino alle lacrime, il suo programma di lavoro: sue prime preoccupazioni sarebbero state i bimbi, gli ammalati, i poveri. La sua non era demagogia né desiderio di accattivarsi la simpatia dei nuovi fedeli. Era convinto che quello fosse il suo dovere.

Quella notte del 18 novembre, benedicendo il padre che si accomiatava per ritornare a Racconigi, benedisse pure, con tutto il suo affetto, i figli di Rivalba, paese di non oltre 900 abitanti dediti all’agricoltura e alla viticultura.

ARDORE SACERDOTALE

Paramento sacerdotale usato da don Clemente

Il nuovo parroco volle conoscere subito la sua gente. Ben presto si accorse che grande era l’attaccamento alle cose di quaggiù e profondo il disinteresse per quelle di lassù. Apparvero ai suoi occhi invidie e rancori, i cui frutti amari si traducevano in liti che creavano dissapori sia tra persone sia tra famiglie. Notò pure un bel gruppetto di anticlericali, sempre disposti a interpretare gesti e parole del «prete» a modo loro, condendo tutto con irriverenze, bestemmie e calunnie.

Grazie a Dio, c’erano pure delle ottime famiglie, la cui bontà si rifletteva nella sana educazione che sapevano impartire ai figli. A conti fatti, gli era difficile dire se prevaleva il male sul bene.

La conclusione era che il clima che regnava a Rivalba non era completamente pacifico.

Bisognava disporsi a un lavoro duro, difficile, che avrebbe messo a prova tutta la sua intelligenza, la sua volontà e la sua fede. Gli amici di sempre, gl’insinuavano in mille maniere: «Viva in pace e lasci vivere». E lo dicevano proprio a lui che deliziava saziarsi di ben altri ideali.

Scarpe usate da don Clemente per celebrare le lodi a Dio

La vita, dono di Dio, deve essere vissuta e valorizzata come merita e non sciupata per paura o donata al proprio comodo.

Don Clemente non era pusillanime né lo voleva essere a Rivalba, nonostante le difficoltà che vi potesse incontrare. Ciò s’impegnò a farlo capire a quanti gli erano stati affidati, volessero o no giovarsi di lui e del suo apostolato.

Al giorno della festa successero subito i giorni del lavoro apostolico, cui si dedicò con tutto lo slancio del suo ardore sacerdotale.

Navata centrale della chiesa di Rivalba

INCOMINCIÒ COI FANCIULLI

L’aveva detto nel suo discorso programmatico. Quando stava con loro sembrava un altro: il suo naturale riserbo s’apriva a temperata accondiscendenza per conquistarsi la loro amicizia; la sua parola, di solito contenuta e severa, si faceva tutta animata di similitudini e di fatti che la rendevano immediata e avvincente.

Bimbi dell’asilo di Rivalba ai quali don Marchisio spezzava il pane della fede

Ai suoi catechismi per i fanciulli intervenivano spesso anche dei sacerdoti, per apprenderne la metodologia, e degli adulti, attratti dalla limpidezza della sua anima che, al contatto con l’innocenza dei bimbi, si manifestava in tutta la sua genuinità.

Ci furono però gli anticlericali che compresero subito quale sarebbe stato il frutto di quel suo lavoro e s’irritarono. Incominciarono a criticare la sua condotta coi bambini, dipingendoli come indiscreti, petulanti, capaci di rubargli la parte migliore del suo tempo e delle sue forze. E quando s’avvidero che per questa strada le cose non mutavano, intentarono un metodo più sottile e più pernicioso: insegnavano ai più discoli a disturbare le lezioni di religione con domande strane. Ma nemmeno questo dette un buon risultato. Don Marchisio ascoltava con pazienza, correggeva gli errori con semplicità e passava al contrattacco con tanta discrezione che gli stessi ragazzi si rendevano conto chi fosse quel loro sacerdote e quanto li amasse.

Mezzo di trasporto usato da don Clemente Marchisio per trasferirsi a Rivalba,

lo stesso mezzo lungamente adoperato dalle sue Figlie per consegnare il frutto del proprio lavoro.

LA RABBIA DEGLI ANTICLERICALI

Fu aperto allora un nuovo fronte di battaglia: impedire che le sue parole arrivassero alle anime.

Scrittoio del Beato Clemente Marchisio conservato nella sala di esposizione
a Rivalba,

sul quale è ancora aperto il registro delle Sante Messe.

Incominciarono gli uomini con uscire di chiesa quando il parroco cominciava la predica, e la continuarono le donne, obbligate anch’esse ad allontanarsi se volevano evitare liti in famiglia. Solo un piccolo gruppo di fedeli rimaneva in chiesa disturbato dal di fuori da strepiti, parolacce, grida e perfino da canzoni oscene.

Non mancò nemmeno lo scherzo di cattivo gusto. Un giorno spalancata la porta principale della chiesa e mostrando un asino, gridarono al parroco: «Guarda là, guardalo tuo fratello che raglia come te!».

Dieci anni durò questa lotta, durante i quali la virtù di don Marchisio fu messa a dura prova e la sua pazienza si manifestò eroica. Ma non cedette. Egli disse un giorno:

«Se tutte le disgrazie mi cadessero sul capo, io non mi dimenticherò di Te, mio Dio, e ti servirò con tutto il cuore e con lo spirito sollecito. Avrò sempre lo sguardo fisso al mio dovere e lo amerò a costo di qualsiasi sacrificio».

La sua giornata scorreva piena, dalle cinque del mattino fino alle dieci di sera quando la chiudeva con il rosario. La preghiera, la celebrazione dell’Eucaristia, il paziente ascolto di quanti andavano a lui, le visite ai malati, il disbrigo delle pratiche amministrative, la frugalità dei pasti, i catechismi, le frequenti adorazioni eucaristiche… davvero la rendevano piena, feconda, operosa.

Bambini di Rivalba preparati dalle suore per la Prima Comunione

L’AMORE PER I MALATI

Abbiamo detto “le visite ai malati”. Queste erano una delle sue preoccupazioni pastorali. E non le ometteva mai. In qualunque momento fosse chiamato, di giorno o di notte, egli prontamente accorreva, tralasciando ogni altra occupazione. Naturalmente non mancavano i mali intenzionati che lo facevano correre inutilmente. Anzi perfino si approfittò della sua sollecitudine per usargli violenza. Ma egli sapeva trarsi d’impaccio con avvedutezza o, se era necessario, anche mettendo in azione la sua prestanza fisica. Preferiva gli ammalati più poveri ed umili, lasciando gli altri alle cure del suo coadiutore.

Quasi mai si presentava a mani vuote e di questo se ne rendeva conto la domestica Anna, quando trovava la pentola mezza vuota o il tegame con meno di quello che aveva messo sul fuoco. Egli era così e nessuno poteva cambiarlo. Compiva quello che aveva detto Gesù: «Ero malato e mi avete visitato, avevo fame e mi avete dato da mangiare».

Una frase, che una volta disse, ci dà il senso della sua dedizione al lavoro personale.

«Solo gli ignavi dicono: riposiamoci. Le anime generose, dopo le loro fatiche, ripetono semplicemente: passiamo ad altro».

E “passare ad altro” corrispondeva in don Clemente Marchisio a lasciare la sua parrocchia nelle mani del coadiutore, per andare a predicare missioni, ritiri spirituali, novene o tridui in altre parrocchie della diocesi.

Uno dei manoscritti autografi del Beato Clemente

Ben preparato, profondo conoscitore dei santi Padri, consapevole del valore e dell’efficacia della parola di Dio, si dette instancabilmente non solo al bene dei suoi parrocchiani, ma anche di quanti sapeva bisognosi di un consiglio per cambiare vita. Nulla lasciò d’intentato per stimolare i deboli, rafforzare i forti, sollevare i caduti, trascinandoli col suo entusiasmo, convinto che l’amor di Dio non può essere sterile in nessuno. Questo fu il motivo che lo spinse a iscriversi nella Pia Unione di S. Massimo, fondata nel 1867 a Torino, dall’Arcivescovo Alessandro Ottaviano dei Conti di Netro.

Rocchetto preparato dalle Figlie di San Giuseppe per le celebrazioni liturgiche.

«Le cose del mondo devono essere per i mondani, lasciatele a loro; noi manteniamoci raccolti nel nostro spirito, attendendo con fedeltà alla nostra missione»

Una missione che egli compì a Rivalba e in tutti quei paesi che ebbero la fortuna di ascoltarlo e di usufruire della sua direzione spirituale.

Casa di spiritualità “Beato Clemente Marchisio” a Rivalba

un tempo locali adibiti a stalla e fienile del castello.

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